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Commenti/Monumento di Druogno: uomini e capre 

 

  

 

 

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Tutte le foto di questo servizio sono di M. Corti e sono state scattate il 3 febbraio 2010 a Druogno

Per usarle basta chiedere e citare l'autore.

Dove sono raffigurate persone buona norma sarebbe quella di chiedere anche agli interessati. Chi acconsente a farsi fotografare non sempre ha piacere che le foto siano usate da terzi.

 

 

 

(07.02.10) A Druogno, in Val Vigezzo (VB), c'è un monumento singolare. Lontano dalla retorica dei soliti monumenti espressione della auto-rappresentazione che il potere vuole dare di sè stesso e di una montagna 'subalterna'

 

A Druogno un monumento emblematico alla gente di montagna

 

Ad una coppia 'zoantropologica' formata da una donna solida, con l'inseparabile gerla e l'altrettanto inseparabile (e parimenti solida) capra, il compito di rappresentare la tenacia della gente di montagna. Una tenacia che sopravvive nella passione e nella dedizione che giovani ventenni manifestano per l'allevamento delle capre 'nostrane'

 

A Druogno era parecchio che ci volevo andare. Per quel monumento alla capra che avevo visto in un bellissimo libro edito nel 2000 dalla Comunità Montana (FALCINI L, FERRARI E., 2000. La capra campa. A cura della Comunità Montana Valle Vigezzo, stampa Tipografia Saccardo Carlo e Figli snc, Ornavasso (Vb), pp. 95.). Un libro realizzato nel quadro di progetti finalizzati a rilanciare l'allevamento caprino in valle. La foto del monumento è a pag. 35.

 

 

 

In realtà il monumento non è dedicato alla capra ma è 'alla gente di montagna industriosa, tenace, onesta'. Un po' retorico, è vero. L'opera dello scultore, però, è meno retorica della dedica che, tra l'altro, in inverno, con la neve che copre il riferimento all' 'onestà', appare - così 'troncata' - più sobria e appropriata, specie in tempi in cui le 'mani pulite' sono riferimenti ambigui.

L'artista ha colto bene la capacità di questa 'coppia zooantropologica', tutta al genere femminile, di esprimere il senso della tenacia del vivere in montagna. Sempre con la gerla in spalla per trasportare il 'fieno selvatico' dalle coste rocciose già fino alle stalle,  il letame sui prati, le patate dal campo a casa, la foglia del bosco per fare il letto alle capre. E poi, ancora, per trasportare il formaggio, frutto prezioso della stagione d'alpeggio, giù verso le dimore a valle. Non a caso  una donna, anch'essa non più giovane,  con il fazzoletto in testa, il gerlo e una solida caprottona (Alpina comune a mantello camosciato nostrano) appare anche nella copertina del libro edito dalla Comunità Montana.   Nella foto la donna ha sulle spalle un gerlo con le bacchette distanziate, tipico  dell'area culturale centroalpina e lombardofona e vero emblema della vita ruralpina in quest'area. Ma la gerla con l'intreccio fitto è più facile da rendere in scultura ...

Già, una scultura...  Forse, riflettendo, non c'è miglior monumento alla gente di montagna dei manufatti che, resistendo al tempo, stanno a testimoniare insieme alla tenacia, il senso di rigorosa funzionalità ma al tempo stesso di 'estetica implicita' della gente alpina. Un monumento 'diffuso' fatto di tetti in beole (che proprio qui in Vigezzo e in altre zone dell'Ossola raggiungono un vertice di bellezza), di mulattiere selciate, di rocce adattate a crotti e stalle. E però questa donna e questa capra, trasformate in bronzo, trasmettono un messaggio.

Rappresentare la montanità attraverso la capra è del tutto appropriato ma anche antiretorico, al limite del politically correct.  Da secoli la capra è stata proclamata la 'nemica del bosco'. Non certo dai montanari, ma dai dai poteri colonialisti che hanno assogettato la montagna per poter avere le mani libere nello sfruttamento delle sue risorse. Interessanti riferimenti alla 'guerra contro le capre' si trovano anche nel libro 'La capra campa'. Riferimenti che ci fanno capire come, in località come la Val Vigezzo, dove la 'resistenza' dei montanari alle politiche anti-capre è stata più tenace, essa abbia potuto contare anche su 'avvocati' a loro favore nell'ambito di una élite locale non sempre schierata, come di regola in Italia, contro il contadino. E' forse il sedimento di queste controversie e la presenza di un 'partito delle capre' nella memoria locale  che riaffiora che spiega perché a Druogno la capra abbia potuto avere un monumento.

Un fatto raro in Italia dove i monumenti, a parte quelli ai caduti della Grande Guerra,  sono di solito dedicati ai notabili locali, agli artisti e, nei casi non frequenti che abbiano per soggetto gli animali, raffigurano  le 'nobili fiere': orsi, cervi, aquile. L'idea del monumento alla mucca o, ancor più alla capra, appare peregrina. Invece nei paesi del centro e Nord Europa di monumenti con gli 'umili' animali domestici ne vedete parecchi in giro per campagne e città.

 

Una serie di immagini del monumento di Druogno. La coltre nevosa nasconde il finale della 'dedica' che comprende anche l'aggettivo 'onesta'. Forse è meglio così. In tempi in cui l'onestà e le 'mani pulite' sono riferimenti ambigui e sbandierati. La gente di montagna non ha bisogno di proclamarsi 'onesta'.

 

Il monumento merita ancora qualche parola per quello che 'racconta'. La donna che si tiene abbracciata alla sua (probabilmente unica) capra - per lei una vera sorella - sarà una vedova o una delle tante donne il cui uomo è lontano nell'ambito di 'cicli di emigrazione' a raggio più o meno lungo? Non lo sappiamo. Sappiamo che normative draconiane, che utilizzavano l'argomento pseudo-ambientale della tutela del bosco e della difesa idrogeologica per togliere alla gente di montagna mezzi di sussistenza, hanno imposto nel XIX secolo pesanti limitazioni all'allevamento delle capra sino a concedere di tenerle una sola per famiglia. Non è una novità che il conglitto sociale venga 'naturalizzato' (ogni riferimento a orsi e lupi non deve ritenersi casuale).

La 'concessione', da parte dei poteri statuali (sotto la specie di autorità forestale), del mantenimento delle 'esiziali' capre rappresentava una 'deroga' a favore delle  famiglie 'miserabili' (chi vuole approfondire l'argomento può scaricare il mio saggio su: Risorse silvo-pastorali, conflitto sociale e sistema alimentare: il ruolo della capra nelle comunita' alpine della Lombardia e delle aree limitrofe in eta' moderna e contemporanea).

.Quando non esistevano ancora le 'pensioni sociali' e le 'case di riposo' per le vedove, e le donne sole in genere, la capra era condizione di sopravvivenza, una vera assicurazione sociale. Capiamo bene ora il significato di quell'abbracciarsi alla capra della 'donna di bronzo'. Era la sua fonte di vita. Anche le famiglie senza prati e campi o con meschine proprietà 'terriere' con la capra possonno sopravvivere; perché essa va a cercarsi da sola il suo cibo sui crap, sull' 'incolto produttivo' dei catasti; prché trova sempre in ogni stagione qualcosa di commestibile (per essa che ha gusti molto più vari e adattabili della mucca). Vivere sul ripido, nelle valli impervie, è possibile, ma solo se si hanno le capre. Una storia sedimentata in secoli (ma sarebbe meglio dire millenni) non evapora rapidamente.

I cicli delle trasformazioni della vita sociale e politica incidono certo, e in profondo, sulla montagna ma c'è qualcosa di tenace (per l'appunto) che risalta fuori.

E qui veniamo alla Druogno di oggi, 2010, dove Roberto, 25 anni con l'aiuto di un 'socio', un coetaneo con il quale condivide la passione, alleva un bel gruppo di capre 'Alpine comuni', ovvero le 'nostrane' del monumento. Roberto è intenzionato a trasformare la sua passione per le capre in una attività a tempo pieno. Si è iscritto al registro delle imprese agricole e sta progettando, con l'aiuto della famiglia, la realizzazione di un piccolo caseifico aziendale. E' interessante che giovani come Roberto decidano di riprendere quell'attività agricola che i padri avevano lasciato per dedicarsi al lavoro nell'industria o nei servizi. Ancor più interessante, in termini di notazione socio-antropologica, però, che invece di essere dissuasi dalla famiglia siano da essa incoraggiati e sostenuti (anche materialmente, con il cum quibus). Qualche anno fa il padre e la madre avrebbero detto 'Sei matto? abbiamo dovuto lasciare noi l'agricoltura perché non dava da mangiare e vuoi metterti tu che sei giovane?'.

 

Un aspetto del lavoro di chi 'tiene' le capre. In inverno, con fuori la neve, le capre devono stare in stalla. Stalle tradizionali, a posta fissa, dove l'animale è mantenuto su una lettiera permanente (lec') di foglia di faggio frammista a 'paglione' (graminacee come Molinia coerulea, Calamagrostis arundinacea, Festuca rubra ecc.). L'attrezzo per il traspoprto a spalla è il classico 'gerlo' definito in molti modi diversi nell'area lombardofona dove è diffuso (dal Piemonte nord-orientale al Trentino occidentale passando per la Lombardia alpina italiana ed elvetica).

 

Per questi ragazzi le capre e l'alpeggio sono un modo di vivere. Se le capre danno anche da vivere meglio, ma difficilmente riuscirebbero a staccarsi dalle loro bestie, e sarebbero disposti a fare un altro lavoro e ad impiegare parte del reddito nella loro 'passione'. Ti accorgi che la 'cultura pastorale' l'hanno interiorizzata. Conoscono i tipi di mantelli e le modalità di trasmissione, sanno dirti chi faceva i campanacci ('ora non sono più così belli quelli fatti in zona'), conoscono il lessico pastorale che distingue quelle che in italiano sono sempre e solo 'caprette' in base all'età.  La mia attenzione è stata attirata da una bella capra 'Colombina' (chiamata così in Ossola, altrove Naz, Marin, Fasana, Pfauenziege in svizzero tedesco). Confesso una certa predilezione per questo 'tipo' che ho imparato a conoscere e ad ammirare da molti anni in Valchiavenna  (un tipo corrispondente a un modello di pigmentazione, sia chiaro, non ad una 'razza', come in Svizzera si incaponiscono a ritenere). Di fronte al mio interesse, i ragazzi insistono per portare fuori le capre in modo da fotografarle meglio (il ritratto della doppia coppia di capre e ragazzi lo potete vedere nell'ultima serie di foto sotto).

A volte capita di dover pregare l'allevatore a far questo; qui sono loro a chiedertelo. E' la differenza tra scegliere di vivere in montagna di montagna, di animali e subire una condizione di vita per inerzia. Tra l'orgoglio e la rassegnazione. Forse a qualcuno dispiacerà che in montagna ci sia qualcuno che tenacemente desidera vivere i simbiosi con gli animali, i pascoli, la sua heimat. Se la globalizzazione non è ancora riuscita a 'scartavetrare' tutto e a fare un deserto dei territori sprezzantemente definiti 'marginali', 'aree deboli' 'montagna triste' sarà ben difficile che riuscirà a farlo in un futuro per il quale pochi si sentono di garantire promesse di  sempre crescente benessere e di 'future sorti progressive'. E la tenacia del montanaro può resistere a Parchi, Burocrazia, Orsi e lupi.

 

In alto la stalletta sopra il paese dove vengono tenute le capre. E' in affitto ed è un posto un po' scomodo in inverno tenendo presente che le capre vanno regolate tutti i giorni, ma quando non c'è la neve è raggiungibile da una strada dall'alto. 'Essendo sopra il paese non abbiamo discussioni. C'è gente che non ama gli animali. Lo scorso anno a novembre in alpeggio qualcuno ha chiamato in Comune per lamentarsi che le capre avevano mangiato i gerani. C'era già giù la neve'.  

 

 

pagine visitate dal 21.11.08

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